Points and Positions – Psicoterapia Corporea (di Will Davis)

Ho cominciato a sviluppare il mio lavoro “Points e Positions” nel 1984. All’inizio l’ho visto come una semplice tecnica per mobilizzare i processi energetici, simile alle tecniche di respirazione, agli esercizi volontari, alla formazione di immagini, ecc.

Può essere usato in questo modo adattandolo agli standard del lavoro sul corpo orientato in senso
(neo) reichiano. Ma via via che la tecnica si sviluppava e il lavoro si approfondiva, ho cominciato a capire che questo approccio poteva offrire molto più di quanto pensassi e mi portò a capire quanto sotto descritto. La tecnica stessa poi divenne secondaria rispetto alla metodologia che ne sviluppai.

Origine della tecnica Points and Positions (P&P)

La tecnica “Points and Positions” è una combinazione di tocco delicato e di lavoro verbale mirato a ristabilire la coordinazione bioenergetica spontanea dell’organismo. Questo lavoro trae origine dalle teorie sull’enegia di Wilhelm Reich ed è stato influenzato dalle tecniche di “Positional release” di Lawrence Jones, dalla comprensione dei tessuti connettivi elaborata da Ida Rolf, dal lavoro sul corpo del Radix di Charles Kelley e dalla terapia della Gestalt di Fritz Perls.

Dal punto di vista concettuale, P&P si basa sulla descrizione fatta da Reich del funzionamento della forza vitale e di come questa si trasforma nei comportamenti umani, sia a livello psichico che somatico. Questo metodo utilizza la successiva comprensione di Reich del funzionamento della forza vitale – orgonomia funzionale – che prende distanza dai modelli emozionali, strutturali e psicologici di comprensione del comportamento umano. Il risultato è che viene enfatizzato il funzionamento energetico, ma questo non significa che venga usato semplicemente il modello catartico, spesso abusato e incompreso.

Spesso ci si riferisce al lavoro di scarica catartica come alla parte ”energetica” e/o fisica del lavoro, e una volta avvenuta si pensa sia necessario lavorare a livello psicologico, storico ecc. Questa idea del lavoro “energetico” –  lavorare cioè prima con una parte della persona e poi con un’altra – rinforza il problema della scissione tra mente e corpo.

Un approccio funzionale/energetico invece comporta molto più che non l’espressione emozionale e la scarica fisica. L’approccio funzionale include necessariamente parole, emozioni, struttura fisica, costrutti psichici,  cognizioni e apprendimenti. Include automaticamente ogni tipo di sforzo umano.

E ciò che rende unico l’approccio funzionale è che può avere effetto su tutti questi comportamenti umani senza doverli per forza contattare e lavorare con essi direttamente. Non sono irrilevanti, certo: ma da un puntodi vista funzionale, vanno visti come “sottoprodotti” – sintomi e manifestazioni – di un processo più profondo e non hanno in sé valore intrinseco. La loro importanza e il loro valore dipendono dalla loro sorgente.

I diversi tipi di lavoro terapeutico che trovano origine nelle teorie di Reich possono essere suddivisi in tre aree:

  • psicoterapia corporea
  • orientamento psicosomatico
  • approccio funzionale.

a) Nella prima, c’è una psiche che ha un corpo, ma il primato rimane nel processo delle esperienze operato attraverso l’analisi e la comprensione analitica. L’analisi bioenergetica è un lavoro di analisi caratteriale che utilizza il corpo; Hakomi e anche Gestalt possono essere inclusi in questo gruppo. È il lavoro che è venuto fuori dal periodo reichiano dell’analisi caratteriale, quando egli cominciò a porre attenzione alle qualità delle espressioni del corpo e verbali mentre psicanalizzava i suoi pazienti. Il suo libro, Analisi del carattere, rappresenta questo punto di vista. La storia personale del paziente gioca il ruolo principale nella comprensione del suo comportamento.

b) Il lavoro di tipo psicosomatico costituisce un ulteriore sviluppo per Reich. Si basa sulla comprensione del rapporto tra psiche e soma: come uno incide sull’altro. L’Orgonomia della scuola di New York è un esempio di questo approccio e può essere indicato, generalizzando, come il lavoro svolto da Reich al tempo della “ Funzione dell’orgasmo”. Qui vediamo lo stretto rapporto tra ciò che accade in ambito psichico e come si riflette direttamente nel corpo. È lavoro sul carattere combinato con una forte espressione emozionale, per liberare i blocchi muscolari e scaricare le energie trattenute.

c) L’approccio funzionale rappresenta l’ultima parte della vita di Reich. È una comprensione delle funzioni energetiche in tutte le cose, inclusi gli essere umani. Reich commenta nel 1954, quando stava lavorando a come portare umidità nelle zone desertiche dell¹America sudoccidentale, che tutto quello che stava facendo là in quel momento, lo aveva imparato lavorando con i propri pazienti trent’anni prima. Per lui, si trattava di uno stesso e identico processo. Far rinverdire i deserti e far psicoterapia: dal punto di vista energetico non c’è differenza.

Il punto di vista funzionale non ha a che fare, ad esempio, con un flusso di coscienza, ma con il flusso di energia, che può manifestarsi oppure no in un flusso di coscienza (contenuto): è irrilevante che lo faccia oppure no. Non che i temi e i problemi classici della psicologia, della psichiatria e della  psicanalisi siano in sé irrilevanti, ma viene data loro una diversa priorità. Sono visti come sintomi e manifestazioni di un processo primario, che va “raggiunto” direttamente, in modo che tali classici problemi vengano modificati.

L’approccio funzionale non è la stessa cosa che lavorare da un punto di vista psicosomatico. L’approccio psicosomatico ha a che fare con il rapporto di psiche e soma l’una con l’altro: come una influenza l’altro. L’approccio funzionale ha a che fare piuttosto con il rapporto di entrambi, psiche e soma, col funzionamento energetico.

Reich dichiara che non c’è nulla all’infuori del funzionamento naturale (energetico) e perciò tutte le strutture fisiche e psichiche, così come tutti i comportamenti, vanno automaticamente inclusi in un approccio di tipo  funzionale. Se non lo sono, non si tratta di un punto di vista funzionale.

Incidere sul funzionamento energetico primario significa incidere direttamente su tutte le tematiche umane.

Un lavoro basato sull’energia

Reich e altri autori hanno descritto le funzioni della forza vitale dandoci una lista di una trentina di caratteristiche diverse. Il nostro lavoro è innanzitutto interessato a due di queste: la prima è il flusso spontaneo dell’energia in avanti, “verso” qualcosa, che risulta, tra l’altro, nello sviluppo personale; la seconda è la pulsazione della forza vitale, che è costituita sia dal flusso verso l’esterno classicamente inteso come movimento ed espressione, sia dal movimento di raccoglimento all’interno  erroneamente chiamato fase di contrazione. La maggior parte della psicoterapia reichiana enfatizza la cosidetta fase di espansione della pulsazione.

Il lavoro di P&P è interessato a mobilizzare l’organismo, e una volta mobilizzati, alcuni pazienti cominceranno a fluire spontaneamente all’esterno, nell’espressione; e altri cominceranno a fluire spontaneamente all’interno, nell’impressione. Entrambi i movimenti sono terapeutici. È necessario che avvengano entrambi perché avvenga la guarigione. Uno dei due senza l’altro è inutile. Quando il flusso bloccato, sia verso l’esterno che verso l’interno, è completato, allora è possibile la coordinazione bioenergetica, ovvero l’equilibrio vegetativo.

L’instroke (il riflusso all’interno) della pulsazione non è sempre visto come contrazione, così come l’outstroke (il riflusso all’esterno) non è sempre necessariamente una espansione. Quando si lavora con la pulsazione, l’aspetto qualitativo di entrambi questi movimenti è la cosa più importante.

Dobbiamo prima valutarne la qualità per determinare se un movimento è benefico oppure no. È necessaria una valutazione di tipo funzionale. La qualità del movimento, non la sua direzione, determina l’esperienza.
Questa più ampia comprensione della pulsazione si chiarisce ulteriormente con l’elenco sottostante, che mostra alcune possibili combinazioni di qualità che cambiano in modo significativo il tipo di esperienza.

Espansione                                  Contrazione
Espansione                                  Raccoglimento
Espansione                                  Organizzazione
Espansione                                  Concentrazione
Esplosione                                   Contrazione
Esplosione                                   Raccoglimento
Dissipazione                                Raccoglimento
Dissipazione                                Organizzazione

I termini più descrittivi e neutrali per indicare tutti questi movimenti sono instroke e outstroke: il flusso spontaneo, naturale e desiderabile dell’energia dal nucleo alla periferia (outstroke) e, all’indietro, dall’amperiferia al centro (instroke).

La parola “contrazione” ha una connotazione negativa che riflette l’attitudine a definirla “cattiva” o, nel migliore dei casi, non così importante. Se fosse vero che l’energia si espande e si contrae, allora ogni notte quando ci addormentiamo dovremmo contrarci, il che equivarrebbe a uno stato di ansia; la metà dei nostri battiti cardiaci produrrebbe ansia, la metà dei nostri orgasmi sarebbe dominata dall’ansia. Il termine “gathering” usato da Keleman, “raccoglimento” o meglio “organizzazione”, è più equilibrato e descrittivo per indicare il riflusso della pulsazione (nota1).

Se diamo al termine “espansione” una connotazione negativa, otteniamo ”esplosione”. L’esplosione è il processo di scarica dell’espansione ma non ne è sinonimo. Esplosione indica un aspetto qualitativo dell’outstroke, cosi come l’espansione. L’esplosione può essere contrattiva, se il paziente ne ha paura. Essa sarà trattenuta, bloccata parzialmente, intralciata, in una parola, contrattiva.

Un’esplosione può anche essere aperta e priva di contatto, per esempio in una rabbia cieca. Se diamo un’altra connotazione negativa al termine espansione, così come abbiamo fatto chiamando contrazione la fase di raccoglimento, otteniamo “dissipazione”: un movimento verso l’esterno disorganizzato e improduttivo, che è qualitativamente differente sia da un’esplosione che da un’espansione. Un’espansione è un flusso coordinato, connesso, spontaneo dal centro alla periferia e anche oltre. Un’esplosione è una spinta all’esterno contro qualcosa nel tentativo di superarlo, sia esso un blocco interno o una resistenza esterna. Una dissipazione è un tentativo di evitamento, uno sparpagliarsi per interferire col contatto, non un irrompere all’esterno per entrare in contatto. La dissipazione è improduttiva, senza direzione, non è connessa al nucleo né unificata nel suo flusso. È un’azione fuorviante e non mirata. Emozione come difesa.

Egualmente, non tutti gli instroke sono contrattivi. Centramento, focalizzazione, raccoglimento e concentrazione sono tutti movimenti verso qualcosa. Una contrazione è un movimento via da qualcosa o un tentativo di prevenire che qualcosa accada, di solito un’emozione.

È un evitamento, un trattenimento sistematico e sistemico per non vivere un¹esperienza, come
nella contro-pulsazione di Kelley e nel pattern di interferenza di Boadella. La contrazione nell’instroke offre lo stesso risultato della dissipazione nell’outstroke: l’evitamento di un contatto profondo con l’esterno o con l’interno.

Consapevolezza: dal passato al presente

Nella terapia della Gestalt, l’esperienza del momento presente è il fulcro principale di questo approccio.

Da un punto di vista funzionale, non c’è antitesi tra passato e presente; sono funzionalmente identici così come lo sono psiche e soma. È stata la Gestalt a capire che ciò che accade nel momento presente è ciò che conta. Il passato vive nel presente ed è per questo che è importante. Ma non è il passato che ha degli effetti, è  l’esperienza che si vive nel presente che rende il passato così importante. Oppure il passato è assente e quindi non importante per i processo terapeutico.

È una questione di contesto. Un approccio funzionale include la storia passata, ma l’idea non è quella di regredire al passato, quanto piuttosto di portare il passato nel funzionamento del momento presente. Esperienze infantili, memorie, sogni, vanno sperimentati nel presente, da adulti, quando la consapevolezza e la coscienza sono enfatizzate, così da assumerne la responsabilità e agire su di essi.

Un individuo era privo di aiuto e di difese a 4 anni, quando l’evento traumatico è accaduto; riviverlo come a 4 anni fa ripiombare nello stato di allora; essendone invece consapevole in quanto adulto, dà la possibilità di farne davvero qualcosa.

Questa differenziazione si può intendere meglio con la descrizione fatta da Reich dell’origine di tutti i sistemi di difesa nevrotica. In Analisi del Carattere egli afferma che il motivo originario del sistema di difesa era,  storicamente, quello di proteggersi contro un attacco dall’esterno.

Ma con gli anni, il sistema di difesa assume un altro ruolo, che egli chiama la ”funzione primaria” delle difese: cioè quella di proteggere l’individuo dai propri sentimenti ed emozioni riguardo appunto l’evento storico originario: dalla propria tristezza, paura, solitudine. Il sistema di difesa ora funziona per proteggere sé da se stessi e non da qualcosa proveniente dall’esterno.

C’è uno spostamento di enfasi fra ciò che ci venne fatto in passato dagli altri, e ciò che ora noi facciamo a noi stessi. Il punto non è tanto di  cambiare il passato, compito futile, ma di cambiare la nostra relazione con noi stessi nel presente. Non si trae gran vantaggio nel rivivere il passato, bensì nel rivivere l’esperienza nel momento presente, come un adulto responsabile, cosciente, coinvolto. Questi concetti sono connessi al lavoro del Radix con gli occhi e alle teorie di Boadella sulla comunicazione dell’esperienza.

Il modello della vita e il modello della scarica

Nonostante la forte enfasi sull’energetica, il modello di scarica/catarsi non è centrale per il lavoro di P&P. Come già accennato, il lavoro energetico non è sinonimo di scarica o di espressione: l’espressione è una piccola parte del funzionamento energetico. Noi certo cerchiamo di ristabilire nell’individuo la capacità della scarica vegetativa così come descritta da Reich e da altri, ma non si tratta di un modello rappresentativo perché il modello di “scarica” non è un modello adatto per la vita, per vivere giorno dopo giorno.

Se è vero che ci sono periodi nella vita di ognuno in cui sono richieste forti emozioni, la vita non è tuttavia una crisi costante. Le stagioni non esplodono l’una nell’altra, la notte non esplode nel giorno.

I ritmi  biologici interni come la digestione, la circolazione, le onde cerebrali ecc. di norma non funzionano secondo un modello di esplosione/catarsi. In realtà, quando succede, questo fatto rappresenta un criterio di squilibrio e malattia. Normalmente, devono fluire e pulsare dentro e fuori apertamente e liberamente.

Per definizione, la scarica richiede una “perdita di coscienza”, essere sopraffatti, un “cavalcare le rapide”; una sorta di riduzione generale della coscienza e della capacità di assumere responsabilità. Dopo queste esplosioni abbiamo bisogno di “raccogliere i pezzi” e integrare, interpretare e dare senso a quanto è accaduto. È simile a quanto accade nel funzionamento isterico: esplodere e riorganizzare.

Utilizzare un modello “di vita” anziché un modello “di scarica” per il funzionamento energetico chiarifica meglio cosa significa lavorare energeticamente. Ci focalizziamo sul flusso spontaneo della pulsazione verso l’interno e verso l’esterno, che più si avvicina al funzionamento naturale ed è il modello secondo il quale vogliamo che vivano i nostri pazienti. La vita non è una tempesta o una crisi continua: questi eventi accadono, e infatti si deve avere la capacità di “scaricare”.

Ma poiché il modello di scarica non si avvicina né a quello della vita né a quello del funzionamento essenziale naturale, perché dovremmo usarlo con i pazienti, se stiamo cercando di approfondire la loro connessione con il loro flusso energetico naturale e la pulsazione?

Dopo 18 anni di studio dell’instroke, mi rendo conto che il processo discarica va visto in una luce diversa. È possibile che il bisogno della scarica, che è comune, sia in diretta connessione con la quantità del blocco  e che la scarica in sé non sia necessaria per un funzionamento energetico sano.

È possibile che il bisogno di scarica dipenda da quanto è bloccato il sistema energetico. Se non è bloccato, la scarica non è necessaria. La pulsazione è necessaria per un sano funzionamento e la scarica può essere (o non essere) necessaria perché avvenga questo processo.

Questo punto di vista ci pone in diretta contraddizione con l’idea di Reich sull’energia, secondo cui la formula in quattro tempi ”tensione-carica-scarica-distensione” è universale e essenziale ai fini dell’equilibrio energetico.

Ma abbiamo osservato negli anni come il completamento di un aperto processo di instroke produca da solo lo stesso e alle volte un più efficace cambiamento in una persona di quanto faccia l’attivazione dell’outstroke della scarica. Se ne potrebbe arguire che vi è una scarica nell’instroke; ma io ritengo che la spiegazione sia un’altra. La formula in quattro tempi di Reich è alla base della comprensione di come operano tutte le energie fisiche. Poiché l’energia dell’orgone di Reich non è una “energia” in senso fisico, non vi è ragione per cui debba seguire le stesse leggi meccaniche.

L’orgone non funziona direttamente sul piano fisico o meccanico, ma negli ”stati” trasformati. Si manifesta come energia elettrica, magnetismo, calore oppure emozioni, movimenti e pensieri. Questi stati trasformati – dall’orgone all’energia elettrica o alle emozioni – devono seguire le leggi meccaniche, visto che esistono nella realtà fisica. Una volta che è trasformato e che funziona nel mondo fisico come energia meccanica, la formula in quattro tempi regge e la scarica è necessaria. Ma se si lavora con una sorgente più originaria – il flusso energetico “puro”, non trasformato, che è dentro ognuno di noi -, la necessità della scarica non è più valida, perché a questo livello tali leggi non valgono. È sufficiente mobilizzare la pulsazione direttamente.

Per questo motivo, non c’è più bisogno di lavorare per liberare direttamente i blocchi muscolari e le resistenze psichiche. Non dobbiamo liberare i blocchi muscolari scaricando vecchie emozioni o, equivalente psichico, comprendendo e interpretando il passato. Possiamo contattare la persona “al di sotto” di questo livello e influenzare direttamente la pulsazione organismica primaria. Questo livello è al di sotto di quello in cui l’energia si manifesta in emozioni, pensieri, movimenti, memorie ecc.

Se si ha successo, il risultato sarà che tutte le strutture psichiche e somatiche ne saranno influenzate.

Non attivazione delle difese

I sistemi di difesa esistono e operano a livello psicosomatico. Come risultato, noi non lavoriamo direttamente contro le difese ma al di sotto di esse. Uno dei punti cardine del nostro lavoro è di fare tutto il possibile per evitare l’attivazione di difese nevrotiche. Come regola, se attiviamo comportamenti di difesa nel paziente dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato. In questo senso, includiamo nelle difese sintomi, disordini, problemi, recite (acting out), manifestazioni o vantaggi secondari, corazza, emozioni dalla corazza, giudizi dalla corazza, transfert, proiezioni, resistenze, evitamenti ecc.

  • Ci sono tre possibilità di lavorare con le difese.
    a) La prima è che le difese possano essere contattate e attivate e che poi si lavori con esse direttamente. Un esempio comune può essere quello di creare un rapporto di trasfert con il paziente in modo da portare a galla letematiche transferenziali e poi lavorare su di esse nel setting terapeutico,
    perché il paziente veda ciò che sta facendo. Lo stesso vale a livello del corpo. Caricando l’organismo il blocco muscolare è più forte e chiaro, e così il terapista e il paziente possono essere più consapevoli di come e dove si trattiene. A questo punto la difesa deve essere abbattuta. Lowen usa il modello di un bozzolo con dentro la farfalla: egli ritiene che il terapista debba rompere questo bozzolo per liberare la farfalla, perché  l’organismo non lo farà da solo.
  • b) La seconda possibilità è che la difesa venga contattata, ma non attivata.
    La difesa emerge, diventa più chiara, ma non è agita. Il paziente può anche essere consapevole della difesa, vederla per quel che è, ma non la mette in  atto. La difesa non arriva a fare ciò che vorrebbe.
  • c) P&P si propone di evitare qualsiasi contatto e attivazione delle difese.
    L’intento piuttosto è di fare appello al nucleo e non di provocare le difese, di supportare il naturale processo di guarigione e di crescita così come è rappresentato dal movimento spontaneo in avanti dell’energia. Questa è la parte della persona che lo vuole. Ci proponiamo di lavorare con delle persone, non contro le loro difese. E  facciamo una differenziazione tra incapace e restio; tra atteggiamento protettivo e atteggiamento difensivo.

Dall’espressione all’esperienza

Un’estensione dell’idea di non attivare le difese è che il fulcro del lavoro cambia dall’ “esprimere” chi siamo a “esperire”, fare esperienza di chi siamo. L’espressione è orientata verso: il passato, superare i blocchi, i rapporti interpersonali (nel senso del biasimo e del «cosa mi hanno fatto»), la scarica, l’interpretazione. Per converso, l’esperienza è focalizzata su: il presente, imparare nuove esperienze e non rivivere quelle vecchie, sviluppare un diverso rapporto con se stessi, consapevolezza, pulsazione dentro e fuori, e stati dell’essere. Cambiare il nostro focus dall’espressione all’esprienza, come scrive Joseph Cambell, cambia la nostra vita, così che «la nostra esperienza vitale sul piano puramente fisico avrà risonanza nel nostro essere più profondo… così che sentiremo pienamente l’estasi di essere vivi». Enfatizzare l’esperienza di sé conduce a dare supporto a quell’”estasi di essere vivi”.

L’esperienza dell’estasi è rappresentata energeticamente dalla parte della forza vitale che spontaneamente vuole muoversi verso. E questo “movimento verso” è responsabile della crescita e dello sviluppo, è ciò che rende possibile il cambiamento.  E l’estasi è esperita nell’aperto flusso pulsatorio della forza vitale.
Nell’espansione c’è piacere e nella fase di raccoglimento – che non è la fase di contrazione! – c’è sicurezza e salvezza, che è pure piacevole.

La differenziazione tra espressione ed esperienza si radica nell’idea di Reich sopra citata circa il motivo originario e la funzione primaria dello sviluppo dei sistemi di difesa. Il lavoro sull’espressione si concentra sul motivo originario della difesa: proteggersi da un attacco proveniente dall’esterno, da qualcun altro; è orientato al passato, a ciò che ci è accaduto. Ed è orientato all’altro , cioè è inter-personale, è orientato a ciò ci è stato fatto da un altro.

Il lavoro sull’esperienza si concentra sulla funzione primaria del sistema di difesa: ovvero, ciò che facciamo a noi stessi, ora. Ciò che facciamo a noi stessi ora si radica storicamente nel passato, a ciò che ci è stato fatto allora; ma ora lo abbiamo introiettato, identificato, creduto, ecc. e “loro” ora non hanno più bisogno di farci nulla, siamo noi che lo facciamo a noi stessi. Il lavoro sull’esperienza è orientato al presente, è diretto all’esperienza di sé. Se abbiamo imparato a fare qualcosa a noi stessi, forse possiamo imparare a non farlo più.

Modello di apprendimento

P&P è centrato sul paziente, secondo un modello di apprendimento che si oppone al modello di tipo medico o patologico. Un modello di apprendimento è anche diverso da un modello di tipo educativo: non insegniamo ai pazienti se non che devono imparare da se stessi. Il modello medico o terapeutico è basato – secondo le parole di Freud, «sulla “suscettibilità” a un intervento esterno». Il medico “fa” qualcosa al paziente: una certa operazione, l’iniezione di una data sostanza, un certo intervento terapeutico. Questo evento esterno è ciò che viene visto come responsabile del processo di guarigione. L’intervento del terapeuta, sia che egli faccia da schermo delle proiezioni o liberi i blocchi muscolari, viene vissuto dal paziente come l’agente curativo.

Il processo di guarigione, in un approccio di tipo omeopatico, è leggermente ma significativamente diverso. Ciò che si riceve dall’esterno stimola qualcosa che è già esistente all’interno e l’attivazione di questo fattore preesistente è il processo stesso di guarigione. In questo senso, P&P è più vicina all’omeopatia che alla medicina o terapia tradizionale.

C’è un intervento del terapeuta – la sua stessa esistenza nel contatto terapeutico è già un intervento; e il punto non è che non vi sia alcun tipo di intervento, si tratta piuttosto di vedere qual è l’intenzione dell’intervento. È quella di dare al paziente qualcosa che non ha, e di cui ha bisogno? O quella di stimolare qualcosa che già esiste nel paziente, in modo che “faccia da sé”? C’è molto rispetto per il metodo di apprendimento per prove ed errori:
un’imperfetta ricerca di perfezione. L’enfasi è nell’imparare un “giusto” comportamento nel senso funzionale, e non focalizzarsi o cercare di capire i comportamenti “sbagliati” o inadeguati; è un modo per sviluppare sempre più  i punti di forza anziché far luce sulle debolezze.

Orientamento umanistico

La psicologia umanistica considera Reich uno dei suoi pionieri: se si considera la comprensione di Reich del funzionamento energetico e la si traduce in concetti psicologici, il risultato sono i fondamenti della psicologia umanistica. Per questa ragione, in ambito psicologico, il lavoro si orienta verso un approccio umanistico esistenziale.

Lavorare con le energie esistenti

Riteniamo che se c¹è un¹armatura, qualcosa è bloccato, altrimenti non ci sarebbe bisogno di una corazza difensiva. Quel qualcosa può essere un pensiero, un ricordo, un’emozione e/o un movimento. La cosa che tutti questi hanno in comune è la qualità di essere stati eccessivi per l’organismo (too muchness). Ed è per questo che vengono  bloccati.

L’organismo non può processarli in modo adeguato. Sotto sotto c’è la paura che l’organismo ne verrà sopraffatto e che sarà incapace di sostenere la situazione. Che è percepita come pericolosa. Dato che l’organismo è ormai ai suoi limiti – ha già “troppa energia” – , non lo carichiamo ulteriormente, né fisicamente né psichicamente, ma lavoriamo con il livello di energia esistente. Non c’è bisogno di caricare. Il problema può essere definito funzionalmente in termini di “eccesso” di carica nell’emozione, nelle memorie ecc. Perché aggiungere un’ulteriore “carica” se ce n’è già troppa?

E allo stesso modo, non ci sono persone “a bassa energia”. Ognuno ha abbastanza energia per sé, non c’è bisogno di aggiungerne. Le persone depresse, ad esempio, “deprimono” un qualcosa, e ci vuole molta energia per tenerlo giù. Ciò che essi deprimono è molto forte per loro ed è per questo che tentano di evitarlo. Pensate a quanta energia ci vuole per tener giù questo tipo di esperienza!

Il punto non che c’è poca l’energia, ma quello di mobilizzare l’energia esistente, in condizioni di sicurezza, senza caricare e senza sopraffare l’organismo così da farlo tornare in uno stato di contrazione. Sottolineiamo  la possibilità di mobilizzare direttamente e senza rischi l’energia esistente senza danneggiare l’organismo. Noi sollecitiamo, non induciamo.

L’esperienza proviene chiaramente e lentamente dall’interno, dall’esperienza di sé. Ed è il sé che determina quanto è abbastanza per il momento. Un vantaggio di questo metodo è che le difese non sono attivate. Se si capisce che tutte le difese, fisiche e psichiche, sono processi energetici -porzioni di energia spinte all’esterno – allora gli svantaggi di caricare le persone diventano ovvii. Più si aggiungono cariche di energia all’organismo, più se ne aggiungono in proporzione alle difese.

La proporzione rimane la stessa: non si può caricare solo il nucleo. Lavorare per far emergere le
emozioni bloccate equivale ad attivare direttamente i “cani da guardia”, il sistema di difesa. Sono lì per assicurarsi che le esperienze bloccate stiano al loro posto. Una volta che tali esperienze vengono attivate e cominciano a  muoversi, i cani da guardia vengono attivati a loro volta.

Un altro vantaggio di lavorare “sotto” il livello citato è che i cani da guardia dormono ed è possibile lavorare “al di sotto” di loro, modificare la causa del blocco originario; e il risultato è che il processo di blocco scompare. Si tratta di una dichiarazione radicale: quello che intendiamo dire è che può non essere necessario lavorare attraverso il materiale storico per aiutare il paziente a progredire. Alle volte è possibile non lavorare direttamente con i temi usuali del processo terapeutico e tuttavia riuscire a cambiarli. Di fatto, abbiamo visto casi in cui alcune grosse tematiche erano semplicemente “sparite” senza nemmeno averci lavorato su. Il solo fatto che questi fenomeni esistano è di grande interesse.

Intrapsichico e interpsichico

Nel modello intrapsichico si assume che ciò cui siamo più interessati nel setting terapeutico è il rapporto del paziente con se stesso e non con il terapeuta. C’è uno spostamento di attenzione dal rapporto interpersonale o interpsichico – paziente/terapeuta – al paziente stesso, cioè a livello intrapsichico. Certo, come abbiamo detto, non è possibile eliminare l’influenza del terapeuta: intendiamo solo sottolineare l’importanza di focalizzarsi sul paziente e la sua esperienza di sé.

P&P non si propone di lavorare sulle tematiche fondamentali a livello del rapporto paziente/terapeuta, ma piuttosto a livello dell’esperienza che il paziente fa di ciò che sta facendo a se stesso e di come lo sta facendo. Uno dei motivi per cui lavoriamo a livello intrapsichico è che storicamente, in termini di sviluppo, il primo rapporto che abbiamo non è, come in genere si pensa, con un altro, di solito la madre. Il primo rapporto è con noi stessi. Nell’utero e durante i primi mesi di vita, quando l’organismo è in uno stato indifferenziato, conosce solo se stesso, è consapevole solo della propria esperienza di sé. Non fa differenza tra sé e il resto del mondo: è una condizione di onnipotenza. Dal concepimento ai primi mesi di vita fuori dall’utero, ha trascorso circa un anno sviluppando una “personalità” che si porterà dietro per gestire tutti i successivi rapporti, a cominciare di  solito da quello con la madre.

Nonostante le conoscenze acquisite negli anni circa l’importanza degli effetti sul bambino che derivano dalla vita intrauterina e dall’esperienza della nascita, non abbiamo informazioni che contraddicano quanto diceva Freud in origine: «non possiamo certo presupporre che il feto abbia una qualsiasi conoscenza di trovarsi in pericolo di annientamento; il feto può solo sentire un “generale disturbo nell’economia della propria libido narcistica’. (nota 2). Partendo da questo dato, il lavoro di P&P si focalizza sull’individuo e il suo rapporto con sé.

Pertanto quello che ci preme è in primo luogo l’esperienza di sé della persona, e solo in un secondo tempo il suo rapporto  con gli altri. Se uno cambia il proprio rapporto con se stesso, tutti gli altri rapporti cambiano di conseguenza. Questo è un modello intrapsichico (intrapersonale) opposto a un modello interpsichico (interpersonale). Ne risulta che il ruolo della relazione tra paziente e terapeuta viene de-enfatizzato, minimizzato per quanto possibile. Il rapporto terapeutico non è più il “campo di battaglia” – per usare un”espressione di Freud – dove si compie il cambiamento.

La maggior parte dei problemi che si manifestano nei rapporti interpersonali – con amici, amanti, parenti, terapeuti – sono di fatto problemi che il paziente ha con se stesso. Ad esempio, un problema sessuale, eccezion fatta per disturbi di carattere organico, è essenzialmente un problema che una persona ha nel vivere il proprio potenziale. I problemi sessuali nascono quando egli non può aprire il proprio cuore o non può connettere il centro del cuore con quello genitale, o non si può fidare abbastanza. Sono problemi che egli ha nel soddisfare il proprio potenziale.

Non sono problemi con l’altro. Ma si manifestano in termini di perdita di contatto con se stessi e con l’altro, quando il comportamento incompleto viene vissuto, manifestato nel rapporto interpersonale. È qui che li vediamo inizialmente. Ma questo non significa che siano il “luogo” della causa del problema.
La seconda ragione per cui enfatizziamo il modello intrapsichico è perché Reich ha chiaramente capito e spiegato lo sviluppo e il mantenimento dei sistemi di difesa. Come già detto, egli fa differenza tra motivo originario di un sistema di difesa e la sua funzione primaria. Il motivo originario per sviluppare una difesa nell’organismo è per proteggeresi da un “attacco” dall’esterno. Questo è l’aspetto della difesa radicato nella sua storia passata, riguarda ciò che fu fatto all’organismo dagli altri. Ma il suo contributo, la sua maggiore intuizione, è ciò che Reich chiama la funzione primaria della difesa, che è ciò che l’organismo fa attualmente a se stesso, per proteggersi da ciò che può emergere dall’interno.

Mettiamo il caso, ad esempio, di mio padre, che mi ferì con la sua rabbia ingiustificata quando io provai ad affermare me stesso. Originariamente, io mi sono protetto contro la sua rabbia. Ora che è morto, non c’è alcuna ”ragione” per proteggermi ancora, eppure continuo a farlo. La ragione sta nel fatto che il motivo originario – proteggermi dalla rabbia di mio padre – non è più operativo, ma ora mi trovo nella modalità di funzionamento primaria: mi sto cioè proteggendo dal mio stesso dolore e dalla mia rabbia contro mio padre, per il quale sono stato punito in passato. (In termini psicologici, introiezione e/o identificazione, nel senso che io ho preso oggi il posto di mio padre e sto facendo a me ciò che egli ha fatto prima a me). Cosicché continuo a bloccare la mia originaria sana aggressività.

Ci sono in gioco ora due modalità. Da un lato, io escludo il mio impulso naturale ad affermare me stesso nel mondo – aggressività sana – e dall’altro blocco le sane emozioni adattive che sorgono per aver ostacolato l’impulso originario – il mio dolore e la mia rabbia. Sto trattenendo, bloccando me stesso nel momento presente, in relazione a qualcosa che mi è accaduto in passato. Non è più un qualcosa che mi è stato fatto da un altro in passato, è ciò che sto facendo a me stesso nel presente.

Sto creando un problema a me stesso per essere pienamente me stesso. È insomma, ormai, un problema intrapersonale, non interpersonale. In un certo senso, dunque, non c’è passato: sto facendo tutto io, ora, nel presente.

Ora possiamo fare una distinzione più precisa tra proteggersi e essere sulla difensiva. Proteggersi è il motivo originario: la protezione, desiderabile, dell’integrità dell’organismo contro un’intrusione, che va supportata. Essere sulla difensiva è il comportamento distorto della funzione primaria del sistema difensivo: fuori contatto rispetto alla realtà del momento presente, cronico, automatico e inconscio. I sistemi di protezione sono sempre necessari; quelli di difesa no.

Sviluppo dei confini e instroke.

I confini vanno visti come parte del funzionamento energetico, soprattutto in termini di pulsazione. Il flusso verso l’esterno crea l’esperienza, e il flusso verso l’interno agisce come un sistema di feedback che organizza l’esperienza. Questa è messa in una forma significativa grazie all’instroke della pulsazione, dopodiché possiamo considerare la persona “informata” e ”formata”.

È sorprendente vedere lo sviluppo spontaneo di nuovi confini, semplicemente attraverso la mobilizzazione dell’instroke della pulsazione. Senza lavorare direttamente sulle tematiche dei confini, questi problemi mutano e i pazienti riferiscono cambiamenti notevoli nelle loro relazioni.

Uno dei cambiamenti spontanei più evidenti, legati al processo di creazione dei confini che vediamo nei pazienti, è nella loro relazione con i genitori. I pazienti smettono di vedere i genitori come oggetti e cominciano a vederli come persone, che è “capitato” fossero i loro genitori. Come riferisce una paziente, si era sviluppata una “distanza soddisfacente” tra lei e la propria madre.
Le strutture prive di confini sono quelle in cui il funzionamento del riflusso energetico (instroke) è carente. Non essendovi un processo di centramento, non si può formare alcun “centro”.

Rimangono con un Io debole, uno scarso sviluppo del sé e senza un’efficace corazza esterna, che li rende suscettibili di crolli repentini.
Le strutture con un eccesso di confini danno l’impressione opposta, ma il risultato funzionale è lo stesso. Esse presentano delle corazze esterne supersviluppate, rigide, che danno l’illusione di forza. Ma poiché sono esclusivamente periferiche, anche loro non hanno un vero centro.

Distinguiamo dunque tra confini corazzati e confini sani, tra prevenire e proteggere. Come dicevamo, le difese sono necessarie, ma la loro qualità determina il modo in cui funzionano.
I confini sani sono flessibili, plastici, malleabili. Proteggono l’integrità dell’organismo, sono orientati al presente e il loro funzionamento può essere volontariamente sospeso. Le definizioni del fisico Erich Jantsch, ”strutturazione temporale ottimale” e “strutture in divenire” (process structures), rappresentano al meglio questo punto di vista.
La corazza è inflessibile, rigida, paralizzante. È automatica e può essere sia conscia, sia inconscia.

In entrambi i casi, è comunque fuori dal controllo della persona. La corazza è sempre “contro” qualcosa, mai “a favore di” qualcosa. Paradossalmente, un vero contatto (persino la fusione) può verificarsi soltanto in presenza di un confine reale e di una reale separazione. Ci si deve sperimentare come separati dall’altro prima di poter entrare in contatto con l’altro. Senza confini, non si ha nessuna esperienza. Non c’è nessuno – né sé né ego – per fare l’esperienza.

Possiamo osservare, attraverso la mobilizzazione dell’instroke, lo svilupparsi di confini migliori in ogni ambito: fisicamente, il corpo comincia a prendere una forma più netta, i segmenti si differenziano meglio senza segmentazione. C’è una crescente unitarietà nel corpo man mano che i vari segmenti fluiscono uno nell’altro.
Le emozioni sono meglio organizzate ed espresse. C’è un processo chiarificatore che si sviluppa: il paziente separa le proprie emozioni da quelle degli altri e diventa consapevole del proprio contributo al problema. si biasimano meno gli altri e c’è meno la sindrome da «sei stato tu a farmi questo!» Anche il livello mentale si riorganizza: il pensare e il parlare diventano più chiari e più semplici. Viene detto di più con meno parole.  A livello verbale, mobilizziamo l’instroke usando tecniche di messa a fuoco  e di consapevolezza. La consapevolezza viene usata come uno strumento di contenimento. Verbalmente radichiamo le esperienze dapprima nel corpo con il “nominarle”, aiutando i pazienti a fare differenze tra un pensiero, un’emozione e una sensazione. I confini si sviluppano semplicemente perché l’organismo organizza le proprie esperienze e sé stesso: definisce, delinea, dà forma e pone limiti.

Qualitativo più che quantitivo

Ci focalizziamo sulla qualità dell’esperienza, non sulla quantità dell’espressione o del contenuto.

Un flusso anche piccolo, ma aperto, connesso, è più terapeutico di una esplosione forzata e contratta. Cerchiamo  il movimento ma evitiamo l’agitazione; distinguiamo tra proteggersi e stare sulla difensiva, così come tra incapace e restio. Non sarà mai sottolineato abbastanza: è la qualità che determina l’esperienza.

Obiettivi

L’obiettivo a breve termine del lavoro è quello di mobilizzare lentamente e in modo sicuro l’organismo a un livello profondo: ottenere un vero movimento, in entrambe le direzioni, all’interno e all’esterno. Da un punto di vista energetico, questo significa aiutare l’organismo a imparare a pulsare al di là dei propri limiti normali, troncati, corazzati. Quanto, e, quanto velocemente, non ha importanza. La qualità del movimento è ciò che conta, il risultato del movimento è ciò che conta.

L’obiettivo a lungo termine è quello di aiutare a ristabilire lo stato naturale, perduto, di coordinazione bioenergetica. A livello fisico questo si esprime in movimenti liberi, spontanei, vitali, in aperte sensazioni ed emozioni. A livello psichico, c’è chiarezza di pensiero, flessibilità caratteriale, intuizione e umorismo.
L’unico intento del lavoro è di elevare i livelli di tolleranza dell’esperienza energetica. Vogliamo aiutare la persona ad aumentare la propria capacità di accettare livelli di esperienza di sé di Intensità sempre maggiore.

In termini funzionali ed energetici, il “problema” non è la mamma o il papà, o la sessualità, o la fiducia, o la rabbia bloccata, o essere una struttura di tipo fallico. Questi sono tutti sintomi di “aggiustamenti” a un “problema” assai più originario. Sono manifestazioni, nella realtà fisica di psiche e soma, di una causa più profonda, il tentativo dell’organismo di adattarsi e star bene.

In termini attuali, il problema è quello di essere biofisicamente incapaci di tollerare la pienezza delle propria esperienza energetica. A un livello funzionale, il problema è lo stesso per tutti noi: l’eccessiva quantità di tutto ciò. Questo è l’approccio funzionale: in che modo l’organismo organizza la propria energia. Non perché, ma come.

La tecnica di P&P

L’applicazione di questa metodologia assume in genere due forme. Una è un massaggio (tocco) diretto e delicato del corpo del paziente steso su un materassino e la seconda è costituita da specifiche tecniche verbali. Quale  effetto il lavoro ha sul cliente e in che modo egli lo metabolizza – cioè il suo funzionamento durante e dopo il lavoro – determinerà come procedere.

Metà della tecnica di manipolazione fisica – positioning – è stata sviluppata dal dottor Lawrence Jones come metodo di rilassamento di stress fisico e di dolori causati da uno squilibrio strutturale del corpo. Si tratta di una tecnica di trattamento puramente fisica che aiutava a sviluppare «il concetto di disfunzione somatica, da un disturbo strutturale di tipo meccanico a una disfunzione di riflesso neuromuscolare».

Prima dell’innovazione di Jones, le terapie fisiche lavoravano semplicemente sulla muscolatura fisica, cercando di scioglierla con la forza meccanica. Con la sua tecnica, si coinvolgeva il sistema neurale, e gli interventi del terapeuta avevano effetti sul paziente a un livello più profondo e più esteso.
Abbiamo accolto le teorie di Jones e le abbiamo sviluppate ulteriormente fino ad arrivare a un concetto di disfunzione/bilanciamento energetico. (nota 3)

Prima di Jones, l’idea comune per rilasciare la contrazione muscolare era di forzare fisicamente il muscolo a rilassarsi applicando una pressione diretta sull’area contratta e forzandola a “rilassarsi”. Con la tecnica di Jones, il muscolo contratto viene isolato e compresso senza dolore, così da accorciare il muscolo contratto stesso: in un certo senso, aumentandone la contrazione. Questo crea una risposta neuromuscolare che rilascia la contrazione muscolare in modo spontano.

Da un punto di vista bioenergetico, poiché il muscolo è ora artificialmente tenuto nel suo stato contratto – “al sicuro” – dal terapeuta, può permettere che più energia fluisca attraverso il muscolo. Nello stesso tempo, l”energia che è stata sottratta e utilizzata nel processo iniziale di blocco, è ora libera di ricongiungersi al flusso di energia principale ed è di nuovo disponibile per l’organismo.

La seconda parte della tecnica di manipolazione fisica, points, è stata invece sviluppata in modo indipendente. Vi sono alcuni elementi in comun , con i punti dell’agopuntura e dello shiatsu, ma si tratta di una coincidenza. Questi punti sono storicamente più vicini ai “trigger Points” miofasciali, descritti innanzi tutto da Chapman e Travel. Ma non si tratta comunque degli stessi punti e non hanno la stessa base concettuale. E l’obiettivo e il risultato nello stimolare i trigger points sono completamente diversi rispetto a quando li usiamo noi. Dal punto di vista anatomico, i punti si trovano spesso all’inizio e all’inserzione dei muscoli e occasionalmente nel tessuto connettivo formato nel muscolo stesso. L’enfasi non è nelle contrazioni muscolari, ma nella strutturazione del tessuto connettivo.

Le contrazione volontarie e involontarie a breve termine sono muscolari, mentre le contrazioni a lungo termine e i trattenimenti che vediamo e con cui lavoriamo nel processo di corazzamento – e i loro effetti sulla struttura caratteriale – non sono contrazioni muscolari in sé, ma una accresciuta strutturazione di fasce. Questo va inteso come nel rolfing, che sottolinea come un muscolo cronicamente stressato si rinforzerà sviluppando degli strati ulteriori di fasce di tessuto connettivo e li riassorbirà una volta che lo stress è finito. Di fatto, il lavoro di liberazione delle ”contrazioni muscolari”, come vengono generalmente chiamate, è in realtà un lavoro sulle fasce ed è più efficace quando si lavora proprio in termini di fasce. I muscoli reagiranno di conseguenza.

Il lavoro verbale deve molto alle tecniche della Gestalt; in generale, è un lavoro orientato al processo del momento presente. Distinguiamo tra tre tipi di interventi verbali: raccolta di informazioni, messa a fuoco,  mobilizzazione, chiarificazione e sviluppo di modelli (integrazione). Con specifiche tecniche verbali di focalizzazione e mobilizzazione siamo in grado di lavorare energeticamente. Valide tecniche verbali sono in grado di mobilizzare l’energia quanto gli esercizi di respirazione, i movimenti di espressione volontari ecc;

Vantaggi e svantaggi

Vi sono alcuni vantaggi nell’usare questo metodo. Uno è che è possibile controllare e dirigere meglio l’esperienza energetica che affiora evitando gli aspetti spesso eccessivi e contrattivi del lavoro di carica/scarica. Poiché il paziente sperimenta questo lavoro come proveniente dall’interno, impara per sé, col tempo, come aprire e – ancor più importante – come rallentare o chiudere consapevolmente il flusso che emerge. Questo dà fiducia, senso di sicurezza e sollievo. Evita la paura di ciò che può emergere, che è il più comune processo di blocco.

Una volta che il paziente supera la paura di ciò che emerge, il processo terapeutico può procedere a un livello più profondo. Fino a quando è coinvolto in questa “paura di”, di fatto opera a livello di corazza. Questo tipo di paura non è paura vera e propria, come per esempio la paura esistenziale: è emozione proveniente dalla corazza, e finché viene attivata, l’organismo permane nello stato corazzato e senza contatto con il proprio nucleo.

Questo approccio rende il paziente sempre più partecipe nel proprio processo di guarigione e fa anche sì che se ne assuma sempre più la responsabilità. Non è qualcosa che viene gestito dall’esterno, ma qualcosa che emerge dall’interno. Tutto questo è simile alla posizione di Levine, anche se lui scrive specificamente della formula di scarica, quando parla di un «ritmo biologico regolatore»: l’esperienza del paziente è più piena di quanto sarebbe “se fosse stato manipolato, e fosse perciò dipendente unicamente dal rapporto con l’insegnante-teraputa per il rilassamento” (nota 4)

Un altro vantaggio è che con questo metodo si può facilitare sia l’instoke che l’outstroke della pulsazione. Le diverse struttrure caratteriali sono orientate in diverse direzioni del flusso della pulsazione e bloccano diversi flussi della pulsazione; per esempio, in termini di Radix, una struttura fondata sulla paura blocca l’instroke mentre una struttura fondata sulla rabbia blocca l’outstroke. È utile e più facile conoscere quale flusso è stato interrotto e aiutare il paziente a completare quel tipo di flusso.

In genere questo viene deciso dalla risposta stessa del paziente al lavoro; tende a completare spontaneamente il flusso incompleto, all’inizio, per aumentare la loro pulsazione complessiva. Una volta che il flusso contratto è stato liberato – verso l’interno o l’esterno – la pulsazione comincia nell’altra direzione. E così otteniamo un equilibrio energetico e vegetativo.

Uno svantaggio del lavoro di scarica è che si traduce in genere in una diminuzione della consapevolezza e della assunzione di responsabilità. Come precisa Ron Kurtz nel suo Manuale di Hakomi, quando si “cavalcano le rapide” c’è poco tempo per immagazzinare i dati e verificare ogni cosa; lo si fa in acque calme. Lavorando con la carica esistente, il paziente ne controlla l’intensità crescente ed è più consapevole della propria esperienza e può metabolizzarla vie via che emerge. È in una posizione migliore per sperimentare il passato nel momento presente, da adulto responsabile e consenziente, senza rivivere il passato soltanto come un bambino impotente.
Con questo cambiamento di prospettiva, può fare qualcosa di quell’esperienza, rispetto a quando accadde per la prima volta, quando la sola cosa che poteva fare era reagire.

L’esperienza del paziente viene più dall’interno. È sentita come propria più che qualcosa di estraneo o che ha subito da un altro in passato, o nel contesto dell’intervento terapeutico. E quindi egli può partecipare di più e meglio al proprio processo di guarigione. Poiché le difese non sono così attivate; c’è meno transfert, proiezione, interpretazione, integrazione, resistenza, diagnosi, dipendenza dal terapista e dal rapporto terapeutico, e “paura di”.

Il paziente riferisce che le esperienze che gli derivano da questo lavoro sono più concrete. I simboli sono necessari quando la realtà non è disponibile. Questo lavoro sembra fornire un’esperienza più chiara e radicata di chi la persona è, di cosa fare o non fare in proposito. La persona sente meno aspettative e richieste su di sé, c’è più spazio per esplorare.

Ma ci sono anche svantaggi. Allontanarsi dai modelli emozionali e psicologici talora lascia le persone in una sorta di vuoto. Ad esempio, la loro visione del mondo può dipendere dalla loro visione dei rapporti intepersonali. Come potrà aiutarmi nella mia vita sentimentale il fatto di lasciare che la mia spalla sinistra si scuota liberamente? Che cosa ha a che fare l’andare più in profondità con i miei problemi con l’autorità o il fatto che non ho un lavoro? Possono anche credere che sia essenziale il fatto che capiscano la loro rabbia contro il padre, o che debbano lavorare su questo per liberarsene. Non possono fare il salto dal psicologico al funzionale. Comprensibilmente, non vedono la connessione o la rilevanza.

Così, molta gente pensa all’energia come a una metafora. E non vogliono lasciarla emergere e prendere il proprio corso. Hanno bisogno di “capirla” e di “farne” qualcosa. Ad esempio, mi è stato più facile lavorare in Giappone con questo metodo piuttosto che con tecniche neoreichiane tradizionali. I giapponesi si trovano più a loro agio con un’impostazione basata sui processi energetici e non hanno un modello terapeutico/patologico. Se non è mai stato detto loro che devono lavorare sul rapporto con la moglie attraverso un lavoro su quello con la madre, non gliene importa di non farlo, non ci pensano nemmeno. Sono più aperti al livello funzionale.

Questa metodologia non è tanto un tentativo di creare qualcosa di nuovo, piuttosto di scavare più a fondo in ciò che Reich ha già scoperto e delineato. Un tentativo di seguirlo riempiendo il solco che ha lasciato dietro di sé man mano che entrava sempre più in profondità nei fenomeni.

Reich ha scoperto cosi tanti nuovi territori e così velocemente, che sta a quelli di noi che vogliono seguirlo di chiarire e consolidare le conoscenze che ci ha dato.

NOTE

  1. Vedi Working with the instroke ,Energy and character, vol. 15, n. 1, 1984
  2. Hinsie and Campbell, Psychiatric Dictionary, 4th Edition, Oxford
    University Press, New York, 1970
  3. Vedi Releasing Muscular Armour, Energy and Character, vol 16. n. 1, 1985.

 

Will Davis

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